Recensione Alfredo Pasotti

Elio Uberti: la téchne che si fa poiesis

Alfredo Pasotti

 

Due termini greci, nel loro significato più originario e autentico, sono particolarmente indicati per spiegar l’arte di Elio Uberti.

Il primo è il verbo poiein, che nel greco antico significa inventare, produrre, creare, fabbricare. Poiesis è la produzione, la fabbricazione, la creazione in genere.

Nelle lingue neolatine poiesis è diventata poesia, cioè l’inventare, il produrre, il creare per eccellenza, ovvero quello dell’arte, e il termine poetica riguarda sia la creazione letteraria che quella musicale che quella figurativa.

L’arte insomma è lo stadio supremo del poiein.

Ma ciò che sfugge alle traduzioni contemporanee è che il termine da cui origina poesia, indica la concretezza dello sforzo dell’artigiano, dell’esperto, del capomastro: poiein indicava la costruzione di un muro o di uno scudo, così come la realizzazione di un dipinto o di un poema.

Perché il poiein era sostanzialmente collegato – e siamo al secondo termine – al concetto di téchne, che indica la conoscenza specifica – il know how, si direbbe oggi – di un mestiere. Non c’è poiesis, non c’è produzione – di uno scudo come di un esametro o di un affresco – senza téchne, senza padronanza delle regole e degli accorgimenti del mestiere – quello dell’armaiolo come del poeta o del pittore.

L’enfasi data alla cultura greca dal combinato di questi due concetti è tale che la poiesis, propriamente, non utilizza una téchne: la poiesis è essa stessa téchne. Detto alla moderna, l’arte non utilizza una tecnica, l’arte è una tecnica.

E la tecnica come arte è una delle chiavi di lettura cruciali della poetica pittorica di Elio Uberti.

Al di là del significato, la sua produzione artistica è prima di tutto una tecnica, una tecnica di estrema raffinatezza e inventività, e di cura artigianale di ogni passo dell’esecuzione, di ogni dettaglio. Dalla scelta dei supporti a quella dei colori a quella di materiali cui dare forma nuova e incastonare, come pietre preziose, nel contesto dell’opera figurativa.

La sua vita passata a stretto contatto con imprese di produzione e in particolare di produzione metallurgica, si riverbera chiaramente nello splendore dei colori e nel dominio delle forme della sua opera, specialmente quella più recente, in cui è riuscito a combinare la nobiltà dell’acciaio con la malleabilità dell’alluminio e con gli incredibili effetti di policromia della plastica.

 

C’è poi un altro termine chiave – la cui interpretazione è a sua volta un’arte – che comporta l’aver conosciuto direttamente l’artista. E’ emozione. Un termine ricorrente nei discorsi di Elio Uberti, perché è una realtà ricorrente nella sua vita.

La dimensione emotiva, per Elio Uberti, è l’ambito naturale in cui la creazione artistica può trovare non solo espressione, ma anche comprensione.

Troppo spesso si sente ripetere che l’arte – specie certe forme di arte – devono comunicare e comunicare significati. La dimensione emotiva, per sua natura, non è prima di tutto un comunicare, né, tantomeno, un comunicare significati.

La dimensione emotiva vuole prima di tutto e soprattutto esprimere: ovvero essere espressa e poi essere espressione di ciò che ditta dentro. Non è mai agevole comprendere l’epifania di una emozione, a cominciare da chi quella emozione vive in prima persona, perché come spiega Eraclito in uno dei suoi frammenti sopravvissuti, “per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos”: l’anima, la sua ragione, il suo senso, il suo significato, il suo nodo cruciale è collocato talmente in profondità da essere irraggiungibile e ciò che ne viene quindi è mistero anche – e forse prima di tutto – per il diretto interessato.

Ma, secondo il più venerabile principio della filosofia classica – cioè, ancora una volta, greca – nulla si muove se non è mosso da altro.

Lo stesso vale – e forse a maggior ragione – per l’artista.

Il moto poietico dell’artista è un dinamismo messo in moto da altro.

Determinare questo altro non è compito dell’artista ma dell’interprete.

Lo si chiami ispirazione, genio, creatività è qualcosa di autonomo, qualcosa che l’artista si trova dentro. Una presenza. Presenza efficace e indomabile.

I greci lo chiamerebbero daimon.

Demone che sospinge l’artista lungo il suo percorso e guida nella notte della creatività. Che non è la realizzazione di un programma predefinito, di un progetto le cui articolazioni sono già chiare e distinte.

Demone, perché si tratta di una forma di ispirazione che è quasi una forma di possessione, il cui risultato non può essere previsto e che spesso si rivela sorprendente anche per l’artista.

Così anche Elio Uberti appartiene all’infinita tradizione di quei mastri artigiani, ognuno dei quali, con tenacia e sapienza tecnica, ha dato forma e colore alla sensazione ch’entro gli rugge.

E fino a quando l’emozione non si è compiutamente manifestata nella sua forma definitiva, non è possibile nemmeno per lui vedere in anticipo l’esito dell’impeto creativo.

 

Così, l’incantesimo della produzione artistica avvince e suscita in chi la contempla – a partire dal creatore – moti interiori che gettano lampi di luce sulle profondità dell’anima, come efficacemente evocato da Eraclito. E questi moti, che a volte interessano luoghi dimenticati dell’anima, sono per Elio Uberti la finalità ultima dell’arte: l’emozione, che mai come in questo caso riflette perfettamente l’etimo latino di ex-motio, ovvero movimento che proviene da.

Emozioni il cui riverbero cosciente sono quelle che Elio Uberti chiama sensazioni.

Sensazioni che Elio Uberti offre alla luce e nella luce il suo paesaggio interiore, originale e visionario, in cerca di un’arcana sintonia in chi su quella sua dimensione nascosta voglia gettare lo sguardo.

 

 

 

luglio 2017